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Ritratto di Don Raimondo de Quesada


Don Raimondo de Quesada, marchese di San Saturnino. Capo della Reale Segreteria di Stato all'epoca della rivolta antifeudale del 1800.


Ritratto della famiglia de Quesada di San Saturnino.


Il quadro è un ritratto della famiglia di Raimondo de Quesada di San Saturnino, una tempera su carta dipinta a Napoli presumibilmente intorno al 1827-1828.

I personaggi sono divisi in tre gruppi ordinati da destra verso sinistra in ordine di importanza, i primi due sono disposti lungo una linea diagonale: in primo piano sulla destra sono seduti sul divano il marchese, la moglie ed il loro figlio primogenito, al centro davanti al caminetto le due figlie più grandi, mentre i tre più piccoli sono riuniti sulla sinistra.

Al centro del gruppo principale c'è il capo-famiglia don Raimondo (Alghero 21 luglio 1761- Sassari 5 agosto 1849), nominato nel dicembre 1813 marchese di San Saturnino, giudice della reale udienza e Segretario di Stato e di Guerra, assessore criminale nella real governazione di Sassari, gentiluomo di camera del re Vittorio Emanuele I° (1813). Dal 1808 ministro plenipotenziario del re di Sardegna presso la Santa Sede, dal 1815 fino al giugno 1836 fu ambasciatore a Napoli presso tre successivi Borboni, Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II, dove concluse le trattative per il matrimonio della principessa Maria Cristina, figlia di Vittorio Emanuele I°, con il Re Ferdinando II.

Il canuto marchese, è molto somigliante al ritratto fattogli quando era a Roma, dove sul lato destro è raffigurata la facciata della basilica di San Pietro, mentre in quello fatto quando era ambasciatore a Napoli, sul lato destro c’é il Vesuvio fumante.

A giudicare dal numero di quadri e miniature che lo raffigurano, il diplomatico sassarese interpretava con naturalezza il suo ruolo di capostipite, premurandosi di lasciare un ricordo dipinto ai vari rami dei suoi discendenti.

Alla sua destra c’è la moglie donna Luigia Ledà figlia di Gerolamo conte d'Ittiri e barone di Uri.

Il marchese abbraccia affettuosamente con la sinistra il figlio primogenito don Cristoforo, nato a Sassari nel 1813, in seguito segretario di legazione presso il Pontefice dal 1838 al 1842 e quindi consigliere di legazione a Monaco di Baviera, marito della baronessa Felicita Cavalchini Garofoli, morta a Sassari nell’epidemia di colera del 1855, e successivamente di Caterin'angela Tola-Serra, sui cui terreni sorse la miniera dell’Argentiera coltivata fino al 1960, padre di nonna Antonica e quindi nonno di mio nonno Mario e zia Ida Prunas.

L'altro maschietto sulla sinistra, che cerca attenzione dalla tata, è don Pietro, nato a Napoli nel 1823, futuro segretario di legazione a Monaco di Baviera, marito di Angelica Ledà d’Ittiri, padre di Maria, e quindi nonno di don Silvio, don Roberto, e don Rodolfo Prunas, cugini secondi per lato materno e primi per quello paterno di nonno Mario e zia Ida, autore dalle memorie possedute da zio Pietro Ledà dove si trova la sua nota massima indirizzata alla figlia Maria: "L'esperienza della vita ti addimostrerà che la felicità non consiste nell'essere collocato in elevata posizione e nemmeno nel godimento di grandi ricchezze, ma nella tranquillità della propria coscienza".

Nel quadro sono raffigurate quattro delle cinque figlie di don Raimondo perchè all'epoca la famosa secondogenita donna Caterina era già suora col nome di Raimonda Luisa nel monastero di Santa Chiara, come predetto da papa Pio VII. Dopo la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, il papa accettò l’ospitalità e la protezione offertagli dal San Saturnino a nome della corte sabauda, rifugiandosi in Piemonte. Il cardinal Pacca, nella sua relazione ufficiale del viaggio del papa racconta che il I° Aprile 1815 il marchese di San Saturnino in qualità di inviato del re aveva ricevuto Pio VII alla frontiera nei pressi di Sarzana, e nell’incontro aveva manifestato il suo dolore per la malattia della figlia, muta dalle nascita. Il papa aveva consolato il "pio e savio cavaliere" de Quesada preconizzando appunto la guarigione della figlia, poi avvenuta, e la vocazione religiosa.

Data la corporatura presumo che quella al telaio da ricamo sia la maggiore, Carolina, che sposò il conte Clemente Solaro della Margherita (1792-1869), che, fedelissimo alla monarchia, rifiutò di laurearsi in legge durante l’esilio dei Savoia in Sardegna per non dover riconoscere altra autorità, dando la tesi di laurea solo al loro ritorno a Torino. Fervente cattolico e devoto al Papa, dominò la scena politica piemontese durante la restaurazione, opponendosi aspramente ai cambiamenti dell'ordine antico e suscitando l’avversione dei liberali. Diplomatico dal 1816 e ministro degli esteri del regno sardo per 11 anni dal febbraio 1835 all’ottobre 1847, favorì la restaurazione spagnola ed ampliò gli interessi diplomatici del Regno di Sardegna alle Americhe, specie quella meridionale. Favorevole al progetto di una Lega doganale, punto di partenza per un'unione federale degli stati italiani, nel 1846 mise in guardia il re Carlo Alberto del pericolo di schierarsi coi liberali che avrebbero compromesso il suo regno, e quando cominciarono i primi moti di piazza in favore delle riforme costituzionali rifiutò di dimettersi costringendo platealmente il re ad esonerarlo, benchè avesse condotto gli affari di stato con grande abilità ed assoluta lealtà verso la corona. Nel 1853 fu eletto deputato per San Quirico, guidò la destra contro le misure anticlericali di Cavour e si ritirò dalla vita pubblica con l’unità d’Italia.

A questo punto la gobbetta dall'aria intellettuale che legge è la terzogenita Lucia, che aveva un fisico perfettamente normale ma è ingobbita da un maldestro restauro del supporto, sposa a don Simone Manca dei marchesi di Mores (1809-1900), che fu assessore comunale dal 1837 sindaco di Sassari dal 1860 ed ampliò il palazzo di famiglia di fronte al duomo di Sassari. Oggi é anche apprezzato come acquarellista di paesaggi e soprattutto di personaggi in costume tradizionale che costituiscono una preziosa fonte di iconografia folkloristica e sono stati raccolti in volume dal Poligrafico dello Stato.

La ragazza seduta sembra più grande di quella seminascosta dalla tata e quindi si tratta di Girolama, futura moglie di Giov. Battista Cugia dei marchesi di Sant'Orsola, e l'ultima dietro la tata é Orsolina, futura moglie del cav. don Francesco Serra, deputato al parlamento subalpino.

La datazione del quadro si può fare considerando che don Cristoforo è nato nel 1813, nel quadro sembra un ragazzino di 14 anni scarsi, quindi anno del quadro 1827, Pietro, del 1823, dimostra 5 anni, quindi 1828, don Raimondo, nato nel 1761, era circa sessantasettenne.

Il quadro descrive una serena atmosfera familiare d’antan, con le persone intente alle loro occupazioni, Luigia sta lavorando ad un merletto, Carolina sta facendo un lavoro a punto croce, Lucia legge, anche Girolama ha le mani impegnate mentre i due piccoli sono ancora nell’età dei giochi.

Il marchese sembra impegnato in un colloquio confidenziale con il primogenito don Cristoforo, seguito con interesse anche da donna Luigia.

La scena mostra un simpatico ambiente aristocratico dichiaratamente tradizionalista, gli arredi, i vestiti, la pettinatura del marchese sono in leggero ritardo sui tempi, le donne sono più aggiornate, ma nessuna rincorre gli eccessi dell’ultima moda.

Il quadro documenta fedelmente anche l'arredamento dell'epoca, gli antenati non usavano mobili di antiquariato, sei-settecenteschi, ma roba moderna di stile impero, col quale avevano arredato il soggiorno appena arrivati a Napoli nel 1816, ma che al tempo del dipinto doveva essere ormai un pò demodé, con quella la profusione di colonne nei mobili e nel camino, già superati dalle morbide sinuosità del più attuale stile restaurazione Carlo X.

Erano caratteri tipici dello stile impero la tinta unita delle pareti, i riferimenti classici e mitologici e l’esasperata simmetria di disposizione degli arredi che era sicuramente congeniale alla mentalità conservatrice e propensa all’ordine del marchese, di carattere rigidamente aristocratico.

L' arredo è disposto infatti con perfetta simmetria attorno all’asse individuato dal lampadario, anch’esso impero, di cristallo con fregi di bronzo dorato e le candele spente e dal camino inquadrato tra due coppie di colonnine doriche. Sono simmetrici anche i cordoni dei campanelli per chiamare la servitù che penzolano dal soffitto ai lati del camino.

Sulla parte alta della bella specchiera posta sopra il caminetto, con una cornice di legno impreziosita da fregi di bronzo dorato, è raffigurato un auriga che corre tra le nuvole su un cocchio a tre cavalli con dietro un disco solare. E’ una classica allegoria del Sole tipica dell’epoca, un richiamo mitologico intonato ai bei quadri di gusto neoclassico raffiguranti chiare sculture marmoree su sfondo nero.

Gli altri quadri alternati a questi rappresentano paesaggi marinareschi di gusto simile a quelli dipinti da Filippo Hackert per la reggia di Caserta, sulle pareti laterali ci sono due paesaggi con alberi, la strada di un paese ed un paesaggio con un pino marittimo.

Il soffitto é decorato negli angoli con quattro panoplie con tromboni e delimitato da una cornice con guscio ornata da un motivo ricorsivo.

L'incanutito antenato, decano del corpo diplomatico accreditato a Napoli, era affascinato dall’ineluttabile scorrere del tempo e collezionava orologi che esponeva in salotto, uno per ognuna delle quattro consolles impero, fiancheggiati da vasi dorati tipo capodimonte, adornati con composizioni di fiori, tutti protetti da campane di vetro e messi in risalto dall’assenza di altri oggetti sui ripiani. Sulle consolles più vicine al camino ci sono delle colonnine impero con un cappello emisferico di ceramica dipinta, non sono lumi a petrolio perchè manca l'ampolla di vetro.

Dalle ombre sembrerebbe che la scena si svolga nelle prime ore del pomeriggio, verso le quattro, siamo in mezza stagione, forse fine marzo, perchè il camino è acceso ed i vari personaggi maschili indossano vestiti pesanti, ma sembra che la porta-finestra a sinistra sia aperta.

Infatti la luce esterna illumina il pavimento anche nella zona dell’imbotte, non sarebbe usuale una finestra vetrata fino a terra, e comunque manca l’ombra dei montanti centrali delle ante.

Comincia a far tardi ed alle spalle di donna Luigia c’è un lume a petrolio acceso.

La direzione delle ombre non è concorde, irradiandosi dalla finestra come una luce diffusa, mentre le ombre dei vari personaggi vanno tutte nello stesso senso. Anche l'inclinazione non è costante, don Raimondo ha una bella ombra lunga mentre quella di don Cristoforo si infila sotto il sedile. Vista la confusione di ombre sembra che il pittore non si sia formato con studi rigorosi, forse era un autodidatta, abile nell'ambientazione, nella rappresentazione prospettica, che ha un effetto di obiettivo grandangolare, e nelle scelte cromatiche che sono veramente gradevoli anche quando riprodotte come sfondo per il computer.

La superficie riquadrata a tinta blu, simile all'anta della porta sul lato opposto, è una boiserie applicata alla mazzetta del muro.

La luminosità esterna è schermata da una tenda, che era un elemento fondamentale dell’arredo impero perchè si prestava a movimentare l’insieme coi suoi drappeggi. E’ formata dalla mantovana fissa, con un drappeggio centrale e due laterali che finiscono all'altezza dei quadri. La tenda vera e propria, che scorre dietro la mantovana, è costituita da un unico telo tutto raggruppato sul lato destro.

Il pavimento in piastrelle di ceramica copre tutta la stanza con un disegno uniforme che si propaga dal camino a fronte del quale c’è una specie di rosone sul pavimento, sotto i piedi di Carolina e di Lucia.

Il traballante tavolinetto su cavalletti è un leggero telaio asportabile per ricamo; si vede chiaramente che la freddolosa Carolina, che è la più vicina al caminetto, sta infilando qualcosa nel tessuto teso dai lacci, tenendo una mano sopra ed una sotto la sua opera.

Don Raimondo veste in maniera tradizionale, unica concessione alla modernità i pantaloni lunghi, senza piega e non aderenti; indossa un frack o una redingote di panno blu notte, con panciotto intonato che termina alla vita e cravatta a fiocco intorno al collo, un abbigliamento abbastanza formale, che normalmente si usava per strada o per ricevere.

I suoi capelli piuttosto lunghi sono intonati all’atmosfera d’antan di casa Quesada, il marchese non aveva adottato la recente moda dei capelli sfumati sulla nuca.

Secondo la tradizione i figli vestono come il padre, il piccolo don Cristoforo è senza cravatta ed ha una giacca, con bottoni dorati e code, dello stesso colore blu della giubba senza code del fratellino don Pietro, tutti e due hanno una pettinatura à la page, con i capelli corti sulla nuca e sulle tempie.

Le donne indossano dei vaporosi abiti a taglio corto di mussolina, quello di Lucia ha la vita manifestamente alta, ormai di moda da quasi trent’anni, le maniche lunghe sono abbastanza moderne perchè un pò larghe alla spalla, e la scollatura è guarnita con un velo, quello di Lucia è triplo e chiuso da un bel fiocco.

Sono tutte pettinate alla moderna, con i capelli raccolti, la mamma Luigia Ledà ha in testa una cuffietta di pizzo alla moda.

La persona in piedi è chiaramente una tata vestita con un vestito popolano di stoffa più rigida, di cotone a colori, con grembiule da lavoro, l'acconciatura dei capelli piuttosto semplice, e dà svogliatamente (non si china in avanti) un’attenzione prezzolata al piccolo don Pietro che sembra le stia saltando addosso per essere preso in braccio.